Sellare e Partire a Le Vie di Ortensia con Paola Giacomini
Paola Giacomini è nata a Torino nel 1979, e vive in Val di Susa. Si è laureata in agraria, e ha svolto questa professione per qualche mese, il tempo minimo necessario per capire che non era quella la strada che voleva percorrere. Di strada Paola ne voleva percorrere moltissima, in realtà, desiderava più di ogni altra cosa partire, viaggiare: alla scoperta di territori lontani, per conoscere popoli, usanze, altri mondi. Non voleva però muoversi in aereo, e neppure in macchina, o in camper, neanche la bicicletta andava bene per il suo desiderio di esplorazione. Perché il viaggio non è raggiungere una meta il più velocemente, e comodamente, possibile, il viaggio è una tappa alla volta, un giorno, un’ora, un attimo alla volta. Un viaggio così si poteva concepire soltanto in un modo nel cuore di Paola: con il cavallo.
Dal 2005 ha compiuto molti viaggi a cavallo, realizzando il suo sogno di imparare a vivere all’aria aperta, con tutto quello che le serve legato alla sella.
Paola si racconta a Le Vie di Ortensia (leviediortensia.com), una “scuola di equitazione di campagna” che si trova sui monti pisani, nel Comune di Calci, dove Martina Saviozzi ha organizzato tre giorni di avvicinamento e approfondimento dedicati al mondo del cavallo ospitando esperti che rappresentano la sua visione: al centro della giornata di domenica 22 settembre il tema del viaggio a cavallo e certo non poteva scegliere ospite migliore per trattarlo.“Una delle cose che mi sono promessa quando ho avviato Le Vie di Ortensia – spiega infatti Martina – è una formazione di alta qualità per i nostri tesserati e per tutti coloro che vogliono avvicinarsi al mondo del trekking a cavallo”.
Paola è arrivata dalla Val di Susa dove vive con i suoi cavalli a bordo di una Panda granata, su cui ha caricato tutti gli attrezzi del mestiere. Stende sotto gli ulivi il suo telo su cui adagia il necessario per partire, e viaggiare: ce lo mostra con la semplicità, l’umiltà e l’orgoglio di chi è consapevole che è il suo tesoro e non lo scambierebbe con tutto l’oro del mondo.
Il bagaglio indispensabile è distribuito nelle due bisacce, in un cilindro impermeabile che si lega dietro alla sella e in un altro più piccolo da mettere davanti; le corde invece si fissano all’anello più vicino all’arcione stando bene attenti a distribuirne il peso, come anche quello della borraccia. All’anello più in basso si può attaccare, quando non lo si utilizza, il cappello, rigorosamente di feltro, ottimo sia per il caldo che per il freddo.
Le bisacce contengono il materiale utile per il giorno, e anche più delicato: sono di cuoio ed è certo che si tratta del luogo più asciutto e sicuro, per esempio per tenere i documenti del cavallo, o – assicura Paola – il cioccolato, che inspiegabilmente si mantiene benissimo a qualsiasi temperatura sotto al cuoio. Nei due cilindri invece quanto serve per le soste notturne o più prolungate. Ecco che cosa non deve mai mancare quando si decide di “sellare e partire” (sellarepartire.it è non a caso il nome del suo sito).
Per il cavallo: piccola brusca e striglia, che possono essere custodite dentro a una musetta, necessaria per farlo mangiare all’asciutto e certi che la razione di cibo non vada sprecata; coperta termoriflettente; un kit di emergenza di mascalcia, e uno di cucito (che deve contenere anche piccoli pezzi di stoffa oltre ad aghi e fili per eventuali riparazioni di strappi anche del cuoio).
Per le soste: il telotenda per ripararsi di notte (ebbene sì niente agriturismi: Paola dorme, anche a meno trenta, sotto al suo telo); picchetti; bussola e binocolo; pila.
Per farsi un pasto: piccolo fornellino, se ad alcol bottiglietta di alcol per ricaricarlo; macchinetta del caffè; spezie per condire; carne secca; una tazza che servirà sia per bere che per raccogliere acqua (anche piovana alla bisogna, indispensabile per lavarsi, cucinare e dissetarsi. Nei cilindri per le soste più lunghe ci sarà un bel maglione caldo, un asciugamano, e il minimo indispensabile per l’igiene personale, un cambio scarpe. Ogni oggetto che si porta con sé ha più funzioni e utilizzi: la coperta di lana posta sotto alla sella sarà un ottimo isolante per dormire la notte; le ghette perfette per riparare il fornellino dal vento o per sedercisi sopra e così via. Niente è di troppo, niente manca, tutto è indispensabile.
Chiediamo a Paola di parlarci del suo viaggio in Mongolia, la sua impresa più grande: diciotto mesi di strada da sola, quasi diecimila chilometri di sella, con i suoi due cavalli Custode e Cigherè.
Andiamo per ordine però, perché viaggiare con il cavallo Paola?Viaggiare ‘con il cavallo’ perché in tutti quei giorni insieme si impara a capirsi, a volte addirittura a scegliere la strada o ammirare l’alba insieme. Per me il cavallo è venuto prima del viaggio, il viaggio è arrivato per poter approfondire il legame con Isotta e imparare a tradurre quello che il mondo aveva da dirmi, attraverso il suo sguardo.
Qual è stato il tuo primo viaggio?
Nel 2006, il primo viaggio importante è stato raggiungere Santiago de Compostela dalla Val di Susa: 4500 chilometri. Sono partita con la mia cavalla storica, Isotta appunto, ed è stata una scuola per tutt’e due.(esperienza descritta nel libro Campo di stelle. Viaggio a Santiago, nda)
E la Mongolia? Come è nata l’idea di questo viaggio?
L’idea è nata a Cracovia nel 2009, dieci anni prima del viaggio. Avevo già fatto strada a cavallo qui in Europa ed ero già stata in Mongolia due volte. Da quel momento tutte le mie intenzioni sono state rivolte ai preparativi per arrivare davvero a partire il 10 giugno 2018, da Harahorin, a Sud di Ulan Bator, la capitale della Mongolia, con l’obiettivo di portare una freccia alla Basilica di Santa Maria a Cracovia, dove sono arrivata 16 settembre 2019, e poi tirare dritto a casa.
Come una freccia?
Esatto. Quando ero a Cracovia, dieci anni prima del viaggio, mi hanno raccontato che durante l’assalto dei mongoli avvenuto nel 1241, fu ucciso, colpito con una freccia alla gola, il trombettiere che diede l'allarme. In ricordo dell’assalto dei nemici ancora oggi, ogni giorno, si sentono le note della melodia che allertò i cittadini di Cracovia quel giorno e, oggi come nel 1241, la musica si interrompe improvvisamente, per non dimenticare quello che accadde durante l’assalto. Era il 2009, e in quel momento ho pensato che sarebbe stato bello compiere quello stesso viaggio che un esercito di mongoli aveva tracciato ottocento anni prima, ma con un messaggio di pace e non di guerra. Così è stata costruita apposta per questo viaggio una freccia con la punta antica: i cavalli l’hanno portata dalla Mongolia per consegnarla ai pompieri di Cracovia.
Come ti sei organizzata per dormire?
Dormivo sotto al mio telo tenda, tre metri per tre, all’aperto, se possibile fissato tra due alberi oppure con pietre dove non c’erano alberi, come nelle steppe. Sempre, anche a meno trenta ho dormito fuori, per stare vicino ai cavalli, siamo una squadra, non li lascio da soli e poi quando sono in viaggio mi ci sento a casa, al punto che quando sono a casa, mi manca! Picchettavo a terra i cavalli con due corde di una quindicina di metri vincolate al collare, e preparavo il bivacco per la notte, la mattina seguente si ripartiva.
E il freddo?
Il freddo per me non è mai stato un ostacolo, quando è bello asciutto. È un buon compagno il freddo, gestibile con un buon equipaggiamento, i miei sono cavalli mongoli, abituati a vivere a meno trenta. È importante non farli sudare e arrivare alla sosta asciutti, questo il trucco fondamentale. Il problema è invece nelle stagioni di passaggio come la primavera quando diventa difficile gestire l’umidità: è tutto bagnato e poi ghiaccia, quelli sì che son dolori!
Ma tu non avevi paura? E poi una donna da sola…
Certo che avevo anche paura! L’ho sempre coltivata la paura, non la si deve vedere come una cosa negativa. La paura “sana”, ben diversa dalla paranoia o dall’ansia, ti avvisa quando c’è un pericolo e ti fa stare allerta, ti dice guarda che devi trovare alla svelta un piano B. Per quanto riguarda il fatto di essere una donna è stato il contrario: ho ricevuto molti più aiuti e attenzioni rispetto a quanto sarebbe accaduto a uomo. In Russia per esempio ricordo una mattina di febbraio in cui sono stata investita da una bufera di neve, stavo per fermarmi per evitare rischi, tutto era bianco, sopra sotto e intorno a noi. Proprio in quel momento sono arrivati a cercarmi dal villaggio che dovevo raggiungere e mi hanno portata in salvo. Non sono sicura che per un uomo avrebbero fatto altrettanto.
Come ti sei trovata a contatto con un popolo così diverso come i mongoli? Come comunicavi con loro?
Non conosco la lingua mongola. E così alla fine parlavo in italiano, ma ho realizzato molto presto che era un’altra la lingua in cui ci capivamo benissimo: quella dei cavalli. Per questo mi sono trovata molto bene in Mongolia, per il loro rapporto con gli animali e il loro amore profondo per i cavalli. Quando arrivavo in un posto mi accorgevo che guardavano prima i cavalli, e poi decidevano che andavo bene anche io, ma per come stavano loro! Attenzione: non dobbiamo immaginarci qualcosa che ha che fare lontanamente con l’umanizzazione che molto spesso vediamo in occidente. Non si tratta di questo, il loro modo di vivere con gli animali, e con i cavalli in particolare, è molto diverso dal nostro ma vi posso assicurare che ne hanno conoscenza e rispetto profondi. Ho avuto più problemi in Europa a dire il vero…
Come scegli la meta per il tuo viaggio?
C’è sempre un’idea, uno scopo che mi spinge. Per la Mongolia appunto è stata l’idea di un messaggio di pace, nel viaggio successivo, che ho compiuto in Italia partendo dal Parco Nazionale d'Abruzzo per arrivare al Gran Paradiso, ovvero i primi parchi naturali d’Italia che hanno compiuto 100 anni nel 2022, ho portato con me una borraccia. Durante il percorso l’ho riempita con tutte le acque che ho incontrato mescolandole, per offrirle in dono al Gran Paradiso, dove le ho fatte evaporare perché diventassero una nuvola e scendessero come neve sul ghiacciaio.
Avrei altre cento domande da fare a Paola, siamo seduti per terra, rapiti dai suoi racconti che vorremmo ascoltare per ore, sotto agli ulivi; le cavalle di Martina, Ortensia e Nike, due bionde viaggiatrici Haflinger, accompagnano le parole di Paola masticando il fieno e brucando l’erba: le ha legate a una corda ben tirata fra due alberi, per mostrare un metodo possibile di foraggiamento in autonomia.
“Basta chiacchere adesso! – dice perentoria Paola, che mostra sempre il sorriso ma si capisce bene che quando decide qualcosa non è certo facile distoglierla dal suo intento –
Mostra infatti agli allievi dello stage come si ripongono tutti gli oggetti che ci ha illustrato prima e come si dispongono sulla sella: Ortensia farà da cavia! Del resto Martina compie spesso questo rituale per partire per i suoi trekking, quindi la cavalla sa benissimo di che cosa stiamo parlando e si lascia equipaggiare senza muovere un piede.Con gesti calmi e decisi Paola ripiega, arrotola, ripone e piano piano monta, lega e bilancia tutto sulla sella: gesti veloci e sapienti, in pochi minuti è tutto pronto. Scioglie la cavalla e guardando un piccolo sentiero che si inerpica verso monte ci indica di andare e con passo deciso si incammina.
“Ma dove?” Dice qualcuno timidamente, non certo per mettere in dubbio le sue intenzioni ben precise…
“Quando si viaggia a cavallo occorre mettere in conto che ci sono anche dei tratti, spesso impervi, da fare a piedi, vediamo come ve la cavate”.
La seguiamo mentre si arrampica con le due cavalle su per il sentiero, sceglie un piccolo spiazzo che poi declina piuttosto bruscamente verso il basso, in mezzo ad alberi e frasche.“Ecco qui è perfetto, immaginiamo di dover scendere questa discesa, come si fa?”.Si fa che non si fa, vorremmo forse commentare, ma questa risposta non è contemplata, ovviamente.
Paola ci spiega che il cavallo deve essere sempre tenuto verso monte, la mano con cui lo portiamo rappresenta un muro e un punto sicuro per lui, non dovrà mai avanzare superandoci ma deve sempre restare dietro. Se ci sono passaggi molto scoscesi occorre dargli più corda, per lasciarlo libero di scegliere il punto e il modo migliore per affrontare l’ostacolo, perché probabilmente sarà diverso per ogni cavallo. Noi scendiamo per primi, poi guardandolo lo invitiamo a fare altrettanto, senza mai perdere d’occhio lo spazio intorno. È fondamentale che si fidi di noi, naturalmente, ma anche il contrario: un buon cavallo da viaggio sa che dovrà scendere nel modo più “economico”, senza farsi male e smuovendo il meno possibile il terreno sotto ai suoi piedi per non mettere a rischio se stessi e gli altri provocando smottamenti.
Le cavalle sono molto brave, e come da lei previsto ciascuna affronta la discesa e la salita in modo diverso. Fa provare tutti, correggendo e dando suggerimenti: asciutti, decisi, chiari. Facile. Almeno per lei, che ci domandiamo in quante situazioni difficili si sarà trovata durante quei diecimila chilometri senza perdere mai la calma.Si rientra alla base ed è l’ora di mangiare qualcosa, il pomeriggio proseguirà con un laboratorio pratico: come si realizza un kit di selleria d’emergenza, perché quando si viaggia si deve essere in grado di provvedere a se stessi, e ai cavalli naturalmente, senza contare sull’aiuto o l’intervento esterno.
So che Paola ha scritto dei libri sui suoi viaggi e le chiedo se ne scriverà uno anche sul viaggio in Mongolia. Capisco che ho toccato un tasto non facile: “Cinque anni fa ho promesso di scrivere questo libro, a me stessa e lo devo anche ad altre persone”. Si rabbuia per un attimo Paola, pesa le parole, è una persona che le utilizza con precisione, che sa dove posarle, così come un buon cavallo sa dove mettere i piedi su un sentiero impervio: “In realtà ho scritto già diverse parti, la struttura generale c’è, l’indice… devo solo costruirmi il tempo. Una cosa è sicura: quel viaggio non sarà finito, finché non avrò finito il libro”.
È un concetto importante questo, la scrittura come sigillo di un viaggio che rappresenta un progetto, di pace, di unione, fra popoli e culture diverse, in un momento in cui siamo circondati da guerre, come quella che tormenta i territori dell’Ucraina e della Russia, che certo non è la sola purtroppo.Ci abbracciamo, per salutarci, e resto con quella stretta addosso, che mi avvolge come le parole e le immagini che i racconti di Paola hanno disegnato e che resteranno indelebili, lasciando un segno profondo. Spero che trovi quel tempo per finire il libro: percorrendo una strada tutta sua, come quella che ha sempre trovato insieme ai suoi cavalli, per unire, passo dopo passo, paesi così lontani, per dire al mondo, a chiunque abbia la fortuna e il privilegio di poterla incontrare, o leggere, che non è impossibile, che si può fare. Se ce l’ha fatta lei, una giovane donna da sola, a compiere un’impresa così grande, percorrendo tutta quella strada per consegnare una freccia in segno di pace, perché non possiamo fare anche noi, ciascuno, almeno un pezzo, un piccolo tratto, di quella strada verso la pace? Dobbiamo farlo tutti. E Paola ce lo sta insegnando, ce lo ha messo davanti agli occhi, è un’occasione preziosa che non possiamo permetterci di sprecare, la sua storia non deve restare inascoltata o per pochi: la sua storia, il suo messaggio di pace, devono fare migliaia di chilometri, come ha fatto lei con Custode e Cigherè.