La folle storia del trottatore triestino
SE LE COSE stanno davvero nei termini in cui la notizia è stata divulgata, allora non c’è più alcun dubbio. Gli esseri umani si dividono in due categorie: da una parte ci sono quelli che, pur fra mille contorsioni e contraddizioni, cercano di tenere sempre acceso il lume della ragione. Dall’altra quelli ai quali a un certo punto, non si capisce come e perché,va in pappa il cervello. Mondi opposti. Materia e antimateria. Li riconosci subito: gli uni sono disposti a fare i salti mortali, anche senza rete, pur di mantenere la rotta sul crinale che separa il senso dal non senso, il logico dall’illogico; gli altri, con la più grande disinvoltura di questo mondo, si lasciano andare in cose talmente demenziali al cui spettacolo anche Basaglia si sarebbe preso un margine di riflessione in più prima di abbattere i cancelli dei manicomi.
Ma veniamo ai fatti. All’ippodromo di Trieste muore un trottatore di cinque anni. Come? Qui viene il bello: lo lasciano senza mangiare per giorni e giorni, poi, tutto in una volta, lo fanno ingozzare di roba. Il cavallo comincia a dare strani segni,si agita in modo convulso, incomprensibile. E adesso che gli prende? Ha mangiato, che vuole di più? Gli prende quello che anche il primo fedel minchione che passa per strada sarebbe stato in grado di prevedere con precisione scientifica. Il cavallo va in colica e ci stira gli zoccoli. Gran bel capolavoro, da premio Nobel. Chi è l’emerito cui conferire tanto riconoscimento? A dir la verità è più di uno a contenderselo. Tanto per cominciare c’è la proprietaria, che da un sacco di tempo non tira fuori neanche un centesimo per il mantenimento del suo cavallo. Poi ci sono un allenatore e un artiere che cercano, finché ce la fanno, a barcamenarsi alla meno peggio nel prestare al cavallo un minimo di cura. Poi anche loro mollano il colpo, al riparo di un alibi che più assolutorio non si può immaginare: se non interessa a lei che è la proprietaria, figuriamoci a noi. Infine ci sono i dirigenti dell’ippodromo i quali, espletati i loro doveri d’ufficio tipo telefonate e lettere di sollecito alla proprietaria, se ne lavano le mani abbandonando il cavallo al suo destino di fame.
L’ippodromo, si sa, non è un ente di beneficienza. Anzi, diciamola tutta: alcuni ippodromi dovrebbero essere vere e proprie aziende, i cui management passano 24 ore su 24 ad elaborare piani d’impresa e complesse politiche di investimento, senza le quali l’ippica italiana non sarebbe gloria sportiva nazionale che è e che tutto il mondo ci invidia (!!!). Figuriamoci, dunque, se si trova il tempo per qualche chilo di paglia e fieno per un povero trovatello figlio di nessuno. Si fa con i bambini i cui genitori non sono in grado di pagare la retta per la mensa scolastica, vedi tu se non si può fare con una bestia. Tutto regolare. Insomma i nostri personaggi ed interpreti hanno giocato un po’ a passamano. Poi, tutti d’accordo, sono spariti e hanno lasciato il cerino acceso sul muso del cavallo. Il quale l’avrebbe volentieri passato ad un altro, solo che il gioco fosse stato alla pari. Ma le bestie a due zampe sono troppo convinte della loro superiorità naturale per riconoscere a quelle a quattro gli stessi bisogni fondamentali.
La crisi economica, si dice. Certo: c’è, morde e fa male. Però dall’ippodromo di Trieste arriva un messaggio di speranza: si può non soccombere. Basta eliminare qualche bocca da sfamare. A’ la guerre comme à la guerre.